Oltre 1500 feriti, tre dei quali in condizioni gravi. Sono questi i tragici numeri di quanto è successo a Torino nella serata della finale di Champions League tra Juve e Real Madrid, vista attraverso il maxischermo allestito per l'occasione nella centralissima Piazza San Carlo. Migliaia di giovanissimi e meno giovani che in breve tempo, dall'euforia per un evento sportivo, si sono ritrovati stesi per terra, insanguinati e calpestati da una folla di migliaia di tifosi spaventati, che correvano in qualsiasi direzione pur di fuggire da quello che l'immaginario collettivo ha trasformato in attentato terroristico ma che di terrorismo, per fortuna, aveva ben poco.
Nell'attesa che si accertino le responsabilità e che si capisca cosa sia successo realmente, bisogna però ammettere che a Piazza San Carlo non è stata trasmessa solo una partita di calcio, piuttosto sono andate in scena le nostre più recondite emozioni legate alla paura, alimentate da quelli che ormai sono diventati racconti quotidiani di eventi tragici che da ogni parte del mondo piombano sulle nostre vite attraverso un flusso continuo di immagini, suoni e testi che ricostruiscono fedelmente la crudeltà del mondo e che ci vengono riproposti a rete unificate da qualunque mezzo di informazione: tv, carta stampata, smartphone, finanche il passaparola. Il più recente in ordine di tempo: l'attentato nel cuore della capitale del Regno su London Bridge, nella notte tra il 3 e il 4 giugno.
Conviviamo ormai con la paura che qualcosa possa succedere e succederci, senza accorgerci che i mezzi di informazione e di comunicazione ci hanno resi portatori inconsapevoli di tutta l'angoscia del mondo, angoscia che gli stessi media interpretano al posto nostro trasformandola in quotidianità e che ci induce, come negli esperimenti di Pavlov, a “salivare” al solo suono del campanello, anche quando di allarme non si tratta.
E' la “globalizzazione” dicono. E' quel processo che ha condizionato la nostra esistenza e trasformato il “globo” in una specie di “Truman Reality”, ovvero la versione rivisitata, cruda e ansiogena, del villaggio in cui si consumava la trama del “The Truman Show”, la famosa pellicola del regista Peter Weir e interpretato magistralmente da Jim Carrey, che nell'intenzione degli ideatori doveva mostrare al pubblico quanto labile fosse il confine tra finzione e realtà. Ma “questa” nostra realtà non ha effetti speciali, sebbene non manchino gli elementi della finzione: servizi realizzati ad hoc e notizie false disseminati attraverso la rete, la stampa e la tv, per condizionare opinioni e orientamenti.
Stiamo assistendo, e io ci credo, a quella che Papa Francesco ha definito, a giusta ragione, una Terza guerra mondiale combattuta a “pezzetti”, una guerra mondiale alla quale, a differenza del passato, siamo costantemente connessi con la mente pur non vivendola direttamente sulla nostra pelle. E allora, tralasciando quelle che sono le motivazioni religiose (che di religioso hanno ben poco), tralasciando le responsabilità o le cause scatenanti (i conflitti geopolitici e certamente gli interessi economici), è bene cominciare ad affrontare in modo sistemico il come gestire le nostre paure collettive mediate, e trovare soluzioni concrete affinché la vicenda di Torino non diventi una costante nella nostra vita. Ma una domanda vorrei lasciarla in sospeso, affinché la risposta possa essere data da ciascuno di noi senza che questa diventi verità per tutti: come individui e come società, siamo pronti a farci carico di questa angoscia globale e globalizzata che i media proiettano costantemente sulle nostre vite? Parliamone! Buona riflessione.
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